Seminario metodologico. Roma, 28-30 luglio 2015
di Clara Aiosa
Il prof. Gianluca Montaldi, facendo eco alla relazione di Carmelo Dotolo, ha introdotto la sua relazione chiarendone gli obiettivi: mostrare come il concetto di riforma non solo abbia vari nomi, ma sia una realtà a più livelli; esplicitare alcune linee guida e alcuni criteri teologici per una riforma oggi; perorare la riforma della teologia in Italia. Tre le domande preliminari poste dal relatore: quando parliamo teologicamente di riforma, a cosa esattamente ci riferiamo?; si può fare una teologia della riforma senza una riforma della teologia?; quali modelli teologici utilizzare per pensare la riforma? E un’ultima domanda sul linguaggio: che nome dare alla riforma?
Relativamente alla domanda sui nomi da dare alla riforma, il relatore ha richiamato le più significative denominazioni. In primo luogo il termine “aggiornamento” usato da Giovanni XXIII, con la mirabile citazione delle parole che il pontefice ha pronunciato all’inizio del concilio in Gaudet mater Ecclesia: «Nel presente momento storico, la Provvidenza ci sta conducendo ad un nuovo ordine di rapporti umani, che, per opera degli uomini e per lo più al di là della loro stessa aspettativa, si volgono verso il compimento di disegni superiori e inattesi; e tutto, anche le umane avversità, dispone per il maggior bene della chiesa». Da qui il doppio dovere: di custodire il cammino fatto e di proseguirlo: «è necessario che questa dottrina certa ed immutabile, che deve essere fedelmente rispettata, sia approfondita e presentata in modo che risponda alle esigenze del nostro tempo. Altra cosa è infatti il deposito stesso della fede, vale a dire le verità contenute nella nostra dottrina, e altra cosa è la forma con cui quelle vengono enunciate, conservando ad essere tuttavia lo stesso senso e la stessa portata». Aggiornamento, quindi, potrebbe significare: attenzione all’oggi e elaborazione di una nuova forma.
Il secondo riferimento, è al pensiero di Henri de Lubac che nel 1945, in Paradossi e nuovi paradossi, aveva pubblicato una serie di «riflessioni di ordine spirituale». Il termine utilizzato è quello di “adattamento”: «Non si tratta in primo luogo di ‘come presentare’, ma di ‘come vedere’ e di ‘come pensare’. In mancanza di ciò, la presentazione non può essere che artificiale e menzognera, oppure non si eleva al di sopra del processo di volgarizzazione». Il pericolo cui l’adattamento può incorrere è quello di “lasciarsi andare al rimorchio delle mode giornaliere e condividere le passioni della massa”. Nello stesso tempo, però, vi è un pericolo inverso: quello di distinguersi rispetto a quelli cui ci si vuole adattare, non riconoscendo la propria necessità di adattamento: allorché insegno a mio fratello, in realtà non sono io che insegno, ma ambedue siamo istruiti da Dio. La verità non è un bene che io possiedo, che manipolo e distribuisco a mio piacimento. Donandola, occorre che io la riceva ancora; facendola trovare, che io la ricerchi ancora; adattandola, che io continui ad adattarmi».
Della seconda parte di Ecclesiam suam, di Paolo VI del 6 agosto 1964, il terzo esempio offerto dal relatore. Nonostante il tema centrale dell’enciclica fosse quella del dialogo con il mondo, Paolo VI premette un primo capitolo sulla presa di coscienza della chiesa e un secondo capitolo che è riservato al “rinnovamento”. Il prof. Montaldi ha fatto notare che nel manoscritto originario si trova il termine “riforma”, cancellato (non in modo da renderlo illeggibile) e poi sostituito con “rinnovamento”. Il tenore del testo è chiaro: il rinnovamento indica l’aspetto ‘morale’, ‘riforma’ fa riferimento al cambiamento strutturale. Il volto della chiesa, è questa la convinzione di Paolo VI, è da “mondare” e “ringiovanire”: in assenza di eresie e disordini, si tratta di “infondere nuovo spirituale vigore nel Corpo mistico e visibile di Cristo, purificandolo da molti difetti e stimolandolo a nuove virtù”. Tuttavia: «non si deve intendere cambiamento, ma piuttosto conferma nell’impegno di mantenere alla chiesa la fisionomia che Cristo le impresse, anzi di volerla sempre riportare alla sua forma perfetta, rispondente da un lato al suo primigenio disegno, riconosciuta dall’altro coerente ed approvata nel doveroso sviluppo che, come albero dal seme, da quel disegno ha dato alla chiesa la sua legittima forma storica e concreta». Nel testo dell’enciclica la parola “aggiornamento” ritorna e viene confermata come scelta per il concilio ancora in corso: la perfezione non è l’immobilità delle forme che hanno rivestito la chiesa. Vi è, quindi, una forma propria alla chiesa e delle forme con le quali essa si riveste: la prima non cambia, queste ultime possono cambiare.
Oltre a queste denominazioni sono state ricordati anche i contributi di Karl Rahner che parla di trasformazione strutturale (il termine tedesco è Strukturwandel che significa cambiamento di struttura); di Osmund Schreuder, che parla di metamorfosi (il termine tedesco è Gestaltwandel che significa cambiamento di forma); di Yves Congar che nel suo testo Vera e falsa riforma, esplicita cosa si deve intendere con “riforma”: una dinamica di accrescimento, di adattamento e di rinnovamento (accroissement, adaptation, renouvellement).
La conclusione a cui giunge il relatore è quale che sia il nome che scegliemo, ci troviamo sempre di fronte a un fenomeno polivalente.
Passando ad analizzare i modelli teologici della riforma, si sono messi in luce gli elementi dialettici che si intersecano e che complicano ulteriormente la dinamica di una riforma. Di queste dialettiche il prof. Montaldi ne ha proposte alcune. Una prima dialettica è quella tra umanità e divinità. Si tratta della via d’uscita più comune: se il lato divino, il diritto divino della chiesa non può essere toccato, la necessità di riforma riguarda sicuramente il lato umano, il diritto umano.
Una seconda dialettica avviene tra realizzazione storica (storia) e realizzazione finale (perfezione). Non esiste una forma più perfetta della chiesa storicamente esistente, poiché la chiesa è già la forma di vita evangelica inserita nella storia umana; la chiesa è in stato di pellegrinaggio. La dialettica tra aldiqua e aldilà. La forma della chiesa si potrebbe presentare come il regno di Dio che come tale può essere realizzato unicamente e totalmente nel tempo escatologico. Ma da questo ultimo punto di vista, s’inserisce una ulteriore dialettica tra tempo storico e tempo messianico o escatologico. Il tempo messianico o escatologico introduce una cesura che assicura almeno la possibilità di distinguere tra peccato e santità. Le ultime due dialettiche a cui si è fatto riferimento sono state definite dal relatore, la dialettica tra potenza e atto, in base alla quale, la riforma avrebbe lo scopo di realizzare in atto quanto ora è solo in potenza, di tradurre concretamente una forma che come tale non esiste; la dialettica locale-universale che ha un suo peso particolare sia nella riforma sia nella traduzione in atto.
Affrontando il problema della riforma teologica dei modelli, la prospettiva proposta dal relatore è stata quella di tracciare delle linee incomplete su alcuni presupposti teologici e pastorali che richiedono una riforma oggi. In particolare, sono state messe in evidenza alcune questioni di fondo: quali sono i fattori da tenere presenti oggi, quali sono i presupposti teologici, o meglio spirituali e pastorali che rendono caratteristica la riforma oggi; cosa rende diversa la riforma di oggi dalla riforma di ieri e da quella di domani? In questo senso sono stati proposti tre principi. In primo luogo il principio pastorale, seguendo il pensiero di Hünermann che lo esplicita in questo modo: «l’autocollocamento della chiesa, con le sue forme di vita e le sue relative manifestazioni, nella società moderna, in quanto testimone divinamente autorizzata del vangelo di Gesù Cristo». Si tratta, in definitiva della prospettiva che privilegia la prassi o, in senso stretto, la prospettiva di Gaudium et spes, che dovrebbe costituire il primo modello di riferimento; secondo il pensiero di Baum, che ha preso come indicatore il movimento ecumenico: «la condizione richiesta è l’introduzione di nuovi processi sociali che aprono la chiesa all’azione dello Spirito e la rendono capace di abbandonare i legami patologici con il passato».
Un secondo principio analizzato è l’avvenuto accordo tra chiesa cattolica e comunità luterana sulla dottrina della giustificazione, secondo cui il centro dell’esperienza ecclesiale non sta nel costituirsi di un’istituzione, ma in un’esperienza di gratuità. Solo in questo senso la chiesa è non solo assemblea, ma assemblea che risponde in modo adeguato alla chiamata ad esserlo.
Un terzo principio è la capacità di lettura dei segni dei tempi. Come singoli e come chiesa di fronte ad essi possiamo avere sostanzialmente due atteggiamenti: o di rifiuto o di accettazione. Il principio pastorale è quello che in ogni situazione non si domanda cosa c’è di sbagliato in essa, ma quale sia la chiamata che in essa avviene. L’attenzione è stata posta relativamente ai grandi temi che impegnano oggi l’intero pianeta: globalizzazione, ecologia, biodiversità. La stessa crisi vocazionale può e deve essere letta come segno dei tempi.
Concludendo l’ultimo punto della relazione sulla riforma della teologia, il prof. Montaldi ha messo in evidenza una convinzione di fondo: una teologia della riforma non è possibile senza una riforma della teologia. E questa riforma dovrebbe procedere su tre livelli: a) il livello metodologico: riformare la teologia in senso post-coloniale (non europeo); b) il livello del curriculum teologico: ancora troppo slegato dalla vita di ogni giorno; c) il livello delle istituzioni: riformare il cammino teologico in Italia per favorire una collaborazione con le facoltà non teologiche.