Pur riconoscendo gli indubbi successi della intelligenza artificiale, resta aperta la domanda circa la possibile analogia tra mente umana e computer. La narrazione di moda oggi sembra far intravedere non già solo una possibile analogia di struttura e/o di funzioni tra i due, ma una sovrapposizione talmente avanzata che il cinema fantascientifico già si è sbizzarrito nel prospettarci un futuro dominato da una tecnologia che farebbe delle macchine intelligenti le dominatrici della civiltà. Tutto sta a verificare se questa analogia tra mente e computer possa reggere in linea di principio. Su di essa si basa la scienza cognitiva che, nel volume di Giovanni Giorgio, viene fatta oggetto di critica. Una critica, ben inteso, che non vuole assolutamente mettere in discussione gli indubbi successi della tecnologia, ma che vuole tracciare dei confini che, per quanto oggi ci è dato sapere, sembrano invalicabili.
L’ambito di ricerca è quella della filosofia della mente, dove tutte queste questioni, declinate in mille dettagliati interrogativi, sono all’ordine del giorno.
Il volume si apre con la descrizione delle diverse opzioni ontologiche circa la relazione tra mente e cervello (il classico mind/body problem). È in questa cornice, infatti, che si sono andate definendo quelle posizioni – il funzionalismo e il connessionismo – che hanno avuto maggior successo, e che sono poste come oggetto di studio critico. Queste rappresentano una terza via rispetto alle posizioni dualiste (à la Descartes, per capirci, pur con diverse sfumature) o moniste (la mente è il cervello!). Il funzionalismo cerca di smarcarsi sia dal dualismo che dal monismo sostenendo che la mente è una funzione del cervello. Che significa? Come ‘essere un cuore’ è una proprietà funzionale, poiché ciò che fa di un cuore l’organo che è non è la sua composizione fisica – si pensi ai cuori artificiali – bensì un insieme di funzioni (pompare il sangue, assicurare nutrimento e ossigenazione ai tessuti, ecc.) così l’attività mentale può essere vista come un insieme di funzioni (percepire, ricordare, conoscere, progettare, ecc.) a prescindere dalla sua base fisica, materiale o artificiale. Da qui credo si possa capire come scatti quasi ovvia l’analogia: mente: software = base materiale: hardware. Il funzionalismo poi si è evoluto, intorno agli anni Ottanta nel connessionismo, che sfrutta il calcolo in parallelo e non sequenziale, pur mantenendo le stesse opzioni ontologiche di base.
Inizia a questo punto la critica che si appunta su diversi punti irrisolti e, per l’autore, irrisolvibili in linea di principio. Il primo di questi punti è la constatazione di una differenza fondamentale tra mente umana semantica e mente artificiale sintattica. Che significa? Che la mente organica (non solo umana) basa le sue attività in ragione delle significatività che riscontra nel mondo in relazione al suo benessere o malessere. La mente artificiale invece basa le sue attività in ragione della connettibilità di simboli logici, prescindendo del tutto dal significato. Questo consente agli organismi, per esempio, di avere soluzioni creative rispetto a problemi o di mentire (si pensi al fenomeno del mimetismo animale) o, ancora di sbagliare. Ciò che una macchina non è in grado di fare: gli algoritmi, per definizione, risolvono problemi dati secondo un procedimento di calcolo, magari statisticamente articolato, ma non possono decidere contro il calcolo o oltre il calcolo o diversamente dal calcolo. Per questo è bene distinguere l’informazione semantica, propria della mente organica, da quella sintattica propria della mente artificiale. Il discorso dedicato ai diversi sensi della parola ‘informazione’ è una parte del testo particolarmente interessante che merita la lettura.
Il secondo dei punti irrisolti, di cui si diceva sopra, è costituito dal fatto che la mente organica, e specificamente umana, è una mente complessa. Con questo si vuole indicare che la mente organica è frutto di una evoluzione del cervello durata milioni di anni, e che – come illustra la biologia evolutiva – consente di articolare l’attività di un organismo secondo una trilogia costituita da emozione, cognizione, volizione. Queste tre facoltà, come si diceva una volta, non sono per nulla separate, ma cooperano intrinsecamente per ogni attività. È proprio l’emotività umana a essere il luogo ricettivo del valore di qualcosa che la cognizione presenta, ed è in base al valore colto nella cosa presentata che si decide un’azione. La scienza cognitivista classica, invece, omettendo – almeno finora – di affrontare le emozioni, come elemento di disturbo del calcolo logico, restringe il suo ambito alla mera cognizione, oppure considera la volizione sulla base della teoria della scelta razionale che, per esempio, non riesce a comprendere come debba configurarsi qualcosa come un dono, che non procura vantaggio. Le teorie del neuroscienziato emotivo Jaak Panksepp, evocate nel capitolo, danno supporto alle tesi sostenute.
Il terzo dei punti irrisolti riguarda l’integrazione della mente. Cosa sostiene l’autore? Che, secondo il neuroscienziato Gerald Edelmann, la ricerca cognitivista non può procedere senza vincolarsi ai risultati delle neuroscienze. Mi spiego. Noi non abbiamo semplicemente una mente, ma abbiamo una mente che ha una base materiale in un cervello, che è in un corpo, che è in un mondo. Il cognitivismo era stato scaltro nello scegliere la tesi funzionalista, poiché così si era disegnato uno spazio che non doveva tenere conto né della base materiale (cerebrale e corporea), né del campo culturale in cui ogni mente opera. Ma se si vuole dare una descrizione corretta della mente, non si possono dimenticare questi aspetti. La mente non esiste come una funzione ‘in sé’, ma bisogna dare ad essa materia cerebrale, corpo e mondo. Questa è una mente realisticamente descritta.
Il quarto dei punti irrisolti riguarda la coscienza. Se la coscienza, come propone l’autore viene compresa come intenzionalità (capacità del soggetto di dirigersi su qualcosa altro da sé) e come integrazione (capacità di riferire ad un Io la molteplicità delle esperienze), allora le tesi cognitiviste sono decisamente lontane. Né vale il noto esperimento di Benjamin Libet – che tanto ha fatto discutere di sé – a dirimere la questione a favore del cognitivismo, poiché esistono ragioni confutatorie, debitamente eluse, e nel testo considerate.
Come concludere questa critica dei punti irrisolti della scienza cognitiva? Lo sforzo dell’autore è stato quello di liberare la visione della mente da costrizioni artificiose, per ritrovare – secondo l’esperienza che effettivamente ne abbiamo – una mente che vive di significati; una mente non solo cognitiva, ma anche emotiva e volitiva; una mente vincolata alla sua base neurologica; una mente incarnata in un corpo e collocata in un mondo; una mente cosciente delle proprie scelte libere. La conclusione radicale di questo percorso è quello di mettere da parte il concetto cosale di mente, di eredità cartesiana, un concetto astratto, per ritrovare il volume integrale del soggetto che viene fuori da questa critica, la persona umana che sente, conosce, agisce.