• 24 Luglio 2012

XV Simposio SIRT Cronaca della seconda giornata, 24 luglio 2012

di M. Cristina Carnicella

Il professor Crispino Valenziano relaziona sulla dimensione liturgica dell’amen.

Premette che il suo intervento non si struttura sulla sistematicità discorsiva, ma assume la forma di brevi flesh pro-vocativi che vogliono stimolare la ricerca e l’approfondimento.

1) In primo luogo viene posta la domanda del perché un simposioll’Amen ad Aquileia?
Perché questa chiesa di Aquileia ha una identità propria, dichiarata, distinta, tradotta in opere di ogni tipo: mosaici, architettura, liturgia,opere letterarie, dottori, vescovi….Si tratta di una Chiesa che decolla dopo il 313, per tutta una serie di premesse dal punto di vista geografico, sociografico, culturale, politico ecc… che hanno contribuito a forgiarne una identità mediata.
Ha avuto tutta una serie di convergenze provvidenziali che in certi momenti possono suscitare meraviglia. Basti pensare ai due patriarcati di Roma e Alessandria (Origene) che convergono ad Aquileia e mandano testimoni e all’influsso di Milano (Ambrogio). Da qui si diparte l’influsso di Aquileia, come chiesa con una identità precisa in tutta la costa adriatica e che la porterà a diventare “Patriarcato di Aquileia”. Si tratta di un patriarcato, non di origine apostolica, ma che si genera con una sua originalità e identità precisa (con azioni, vescovi, dottori e vicissitudini storiche), che presuppone una forte convergenza della chiesa tutta.
Il professor Valenziano racconta di aver colto proprio durante una sua visita alla città di Aquileia il senso profondo del termine “arcaico”. Arcaico rimanda al concetto di principio ma è qualcosa di diverso dal principio. Arcaico è il principio, ma non tutti i principi sono “archè”. Sono “archè” i principi che di fatto, alla prova della storia, si mostrano generativi. Un archè continua indefinitivamente a produrre. Ed è proprio ad Aquileia che ha constatato questa particolarità dell’archè messa in atto dal patriarcato di Aquileia per cui l’archè diventa prodotto ecclesiale dell’insieme ecclesiale. Questi principi generativi che qui hanno avuto architettura, mosaici ecc….costituiscono un enigma di non facile lettura e di non facile interpretazione.
Lo stesso discorso vale per l’architettura (anche qui siamo davanti ad enigmi…) e per le persone. Ambrogio qui ha presieduto un sinodo che ha visto riunite queste chiese “figlie” verso la fine del 400; Girolamo ha vissuto e lavorato ad Aquileia con l’amico Rufino; ad Aquileia ha operato il vescovo Cromazio. Rufino è stato colui che ha fatto la “expositio symboli” ma il simbolo esposto da Rufino viene dall’arte romana. Ambrogio dice che il simbolo apostolico è la professio fidei della chiesa romana e che la chiesa romana ha il merito di averlo conservato intatto (che non vuol dire mai ridetto). Rufino con l’expositio symboli fa anche una ri-dizione aquileiese del simbolo. Quali sono le accentuazioni introdotte nella ri-dizione?
In primo luogo, nel primo articolo “credo in Dio, padre onnipotente …..creatore del cielo e della terra….”. Aquileia ridice “Credo in Dio Padre Onnipotente ….impassibile” E questa sembrava all’epoca la ridizione più esplicativa, più pastorale del rapporto Padre-Figlio.
In secondo luogo nel “Credo nella resurrezione della carne…” che viene accompagnato dal gesto di segnare la fronte e diventa “Credo nella resurrezione di questa carne”, nel senso di carne mia, ma anche “credo nella resurrezione di questa carne crismata”.
Inltre, il simbolo battesimale, si dà e si riconsegna. Aquileia ha su questo una particolarità enorme. Nella Chiesa romana si dà il simbolo e dopo un certo tempo (Agostino dirà: “Fino a quando non è imparato a memoria”) si restituisce. Ad Aquileia si dà il simbolo al mattino della domenica delle Palme e lo si riconsegna il pomeriggio dello stesso giorno, perché prima che cominci “la grande settimana”, il catecumeno deve avere fatto suo e riconsegnato il simbolo.
E dal punto di vista liturgico, la redditio del simbolo è fondamentale per l’amen.
Si ricorda che il linguaggio liturgico è sempre e tutto performativo e l’amen si misura o si consuma sulla dialettica di “coscientizzazione-responsalizzazione” su professione trinitaria.
L’amen pienamente inserito nella dinamica liturgica piega tutto alla dimensione trinitaria.

2) Il Padre nostro.
Ha 8 amen. Nella tradizione le petizioni del padre nostro sono ridotte a 7 e in questo uso l’amen riconduce fortemente alla dimensione trinitaria. Non si tratta di fare esegesi, ma di vedere la tradizione liturgica che messaggio tramanda.
Il padre nostro, nella tradizione liturgica non si conclude mai con l’amen. L’ultimo amen non conclude. La conclusione è nel “liberaci ….dal male”. Ma dopo questa petizione si continua, perché a partire dalla redazione della Didachè e dalle impostazioni arcaiche fino alla riforma del Vaticano II c’è l’apertura alla dimensione escatologica, all’attesa che….: “Tuo è il Regno, la potenza e la gloria nei secoli!”……”Amen” . Ma il Regno, la Potenza e la Gloria sono Padre, Figlio e Spirito Santo.
E’allora da chiedersi: “Che intensità, che tipologia, che qualità, che declinazioni assumono questi otto amen? Non sono tutti la stessa cosa”

3) Le orazioni.
Una orazione classica liturgica si compone di tre momenti: evocatio, invocatio, deprecatio.
Dio onnipotente ed eterno, tu che hai guidato i tuoi figli fuori dall’Egitto……donaci di uscire dalla schiavitù del peccato….per il Signore nostro Gesù Cristo”. L’evocatio è chiamare da : dalla storia di salvezza, dalla storia umana, dalle circostanze…L’invocatio (vocatio in) deve essere proporzionale. Si “chiama in” perché la storia diventi il luogo in cui Dio si faccia Dio, presente, constatabile.
La deprecatio è trinitaria. Mentre l’evocatio si rivoge al Padre e qualche volta, in circostanze liturgiche particolari, anche al Figlio.
Amen, dopo una orazione così costruita è molteplice in sé stesso. Amen dice è così, rispetto alla evocazione, dice “sia così” rispetto alla invocazione, e dice tutta una serie di cose rispetto alla deprecatio: l’aspetto escatologico, l’aspetto adunale… L’amen dopo l’orazione è densissimo. ‘ complesso in sé stesso. Non ha solo una tipologia successiva, estensiva, analitica, ma ha anche una sua impostazione, al contrario, di ripresa, sintetica.

4) Il fenomeno post Trento e post Vaticano II
Era molto in uso tradurre popolarmente (ma nel senso nobile di popolo), tradurre amen con “così sia!” perché dopo Trento l’impostazione liturgica tridentina, o meglio di papa Pio V, ha fatto in modo che tutto fosse sempre e quasi soltanto “invocazione”. La riforma delle orazioni del Vaticano II (nel messale, della liturgia delle ore…) ha tentato di ritrovare la densità dei tre momenti: evocazione, invocazione, deprecazione. Il “così sia” riduce la complessità dell’amen e la complessità del rapporto della preghiera antropologico-teologico ad un augurio, ad un auspicio. Auspicio legittimo, ma che di fatto è sempre una riduzione della densità dell’amen.

5) La grande dossologia della liturgia eucaristica
Si diceva proclamando il vangelo nella notte di Natale “Gloria a Dio……. e pace in terra agli uomini di buona volontà….”. Ma l’inno angelico è diventata dossologia e quindi trinatario.
Infatti in questo si dice: Ti adoriamo, ti glorifichiamo, ti rendiamo grazie….Il “ti” si riferisce a Dio Padre onnipotente, e poi…al Figlio Unigenito Gesù Cristo, e poi “con lo Spirito Santo”. Solo che nella parte riferita al Figlio spunta una litania e si ha un cambio di genere letterario.
“Tu che togli i peccati del mondo, abbi di noi misericordia; tu che togli i peccati del mondo accogli la nostra supplica; tu che siedi alla destra del Padre abbi di noi misericordia…”. Si tratta di tre invocazioni litaniche all’agnello e questo di fatto, crea problemi nell’impostazione letteraria della celebrazione eucaristica.
Per la gloria di Dio Padre….Amen. Ancora una volta qui abbiamo la misura della densità e della complessità dell’amen (Basti ricordare quante evocazioni diverse si sono succedute nella grande dossologia e quante invocazioni diverse).
6) Corpus Christi. Amen
Agostino ci ha scritto una catechesi: “ De catechizandibus rudibus” in cui dice: “ Se io vengo davanti a te e ti presento il corpo di Christo dicendo:”Corpus Christi” e tu rispondi “Amen”, rifletti su a che cosa stai dicendo con “Amen”. Quale è il senso di questo amen detto ? Se tu mi dici semplicemente che quello è il corpo di Cristo, allora io non te lo posso dare perché quando dici amen (amen assertivo), tu arrivi davanti a me con accanto un’altra persona e rispondendo amen all’espressione “corpo di cristo” stai dicendo che corpo di Cristo è ciò che ha in mano il sacerdote e ciò che tu hai di lato. Se non hai consapevolezza di ciò l’amen è falso”. Cioè se tu non pensi al corpo di Cristo sacramentale e misterico, non puoi dire “amen”.
Per misurare meglio l’intensità di questo amen eucaristico basti pensare alla formula di Pio V:
il corpo di nostro Signore Gesù Cristo custodisca la tua anima per la vita eterna. Amen.
L’ “animam tuam” diventava “te” in due casi: nelle ordinazioni episcopali, presbiteriali , diaconali; l’altro caso era nel viatico.
Inoltre quando si diceva l’una o l’altra formula si era di fronte ad una formula deprecatoria e non assertoria e l’amen si commisurava alla deprecazione e non all’asserzione e non era pronunciato da chi si comunicava che si batteva il petto (quando non era tempo di battersi il petto), ma era detto da chi diceva “Corpus…” .
I riti orientali hanno formula analoga al momento della “memoria istitutionis”.

7) Veni creatur spiritu
Questo è un inno medioevale. Fino a ieri, l’amen si attaccava alla dossologia aggiunta all’inno. La riforma della liturgia delle ore ha riportato gli inni alla loro originalità con la conseguenza di un cambiamento di senso nell’amen: “Per te (Spirito)….conosciamo, per te….sappiamo del Figlio e te noi crediamo, Spirito dell’uno e Spirito dell’altro. Amen” . Questo amen è una asserzione di fede, è di buon auspicio, ed è un augurio, ed è profetico….. Questo cambiamento ha permesso di recuperare la densità dell’amen.

8) Dossologia alla prece eucaristica
“Per Cristo, con Cristo e in Cristo, a te Dio Padre onnipotente……Amen,amen, amen”. Questo amen conclude la prece eucaristica mettendo in questa solennità la mediazione del Cristo che sacramentalmente è stato ri-presentato. Ma non c’è amen senza questione trinitaria. Ma anche qui la situazione si complica, sia perché è un amen di riconoscimento alla mediazione sacramentale del Figlio, sia per tutto ciò che aggiunge relativamente al Padre e al Figlio

9) La traditio battesimale comporta una redditio. La traditio è questione che si riferisce al soggetto. Ma la redditio non è del simbolo, ma della Chiesa. Se vogliamo trovare la dialettica “simbolo: credo-comunità:crediamo” non possiamo non centrare l’attenzione sulla “redditio”.

Nella liturgia questa attenzione già esiste ma la redditio viene però chiamata “ripetizione delle promesse battesimali”. La redditio si ripete diverse volte nell’anno, in diverse occasioni. Nella veglia pasquale quando si chiede: “Credete in Gesù Cristo……?”ecc . La gente non sa se rispondere “credo” oppure “crediamo”. Ma in liturgia, dire coralmente “credo” è esattamente come dire “crediamo” perché l’io liturgico è il “noi”. E ciò è confermato dalla conclusione della reddito, nella veglia pasquale: “Questa è la fede della Chiesa, questa è la fede che ci gloriamo di professare in Cristo Gesù, nostro Signore”. Quindi non è la formula che ci interessa. Il problema è che se l’amen è “aceptatio” è chiamato in causa il singolo, la coscienza individuale; se è redditio, allora è Chiesa.

10) Quando Papa Benedetto XVI è stato impegnato sulla cattedra Roma ha professato il simbolo di fede così:
“Insieme al vescovo di Roma l’assemblea professa la fede con il simbolo degli apostoli.
Santo Padre: Io credo in Dio Padre onnipotente creatore del cielo e della terra
Il cantore: Amen. Credo
L’assemblea: Amen. Credo
Santo Padre: E in Gesù Cristo, suo unico Figlio nostro Signore.
Il cantore: Amen. Credo
L’assemblea: Amen. Credo……..”

L’11 giugno 2012 in Laterano si propone la medesima struttura per la professione di fede, ma la scuola che ha eseguito ha preferito cantare invece dell’espressione “Amen. Credo”, “Credo. Credo, Signore”. E qui ci si ricollega al discorso del ri-dire l’amen e al problema inclusivo tra Credo e amen che tende a capovolgere le situazioni. Prima di tutto si deve dire: Amen. È’ così! poichè l’amen è “giustificativo di Dio davanti a me e di me davanti a Dio”.

Prospettive di confine

Il professor Lucio Pinkus, apre la parte di simposio sull’Amen che riguarda le prospettive di confine.

Il professor Pinkus fa presente che la parola “confine” è un termine polisemico. Indica il limite come pure la soglia dove avvengono da un lato le differenziazioni e dall’altro gli incontri, gli scambi. Tutti abbiamo un nostro nucleo identitario che ha i suoi confini, ma questo nucleo si forma proprio nell’incontro, nella relazione con quanto è fuori di noi, diverso da noi.
Ripensando al percorso fatto negli anni precedenti, non si può non prendere atto che il lavoro fatto ha messo in rilievo il rapporto reciproco dei diversi ambiti delle conoscenze determinando una circolarità delle conoscenze dove è difficile discernere quanto fa parte della razionalità intellettuale comune a tutta la cultura e quanto appartiene alle singole scienze. Questo ha dato luogo ad un discorso trans-disciplinare .

Già il Concilio Vaticano II , aveva colto i cambiamenti epocali in atto e il cambiamento di paradigma delle scienze e aveva riconosciuto alla cultura umana una radicale modificazione che sul piano della trasformazione intellettuale dà un peso crescente alle scienze matematiche, fisiche e umane, mentre sul piano dell’azione si affida alla tecnica originata da quelle scienze. Di qui, il concilio coglie come caratteristica della post-modernità la mentalità scientifica e riconosce il passaggio da una condizione piuttosto statica dell’ordine ad una concezione dinamica ed evolutiva, fattori che determinano un imponente complesso di fattori nuovi e siglano nuove analisi.
Tutto questo insieme rende più articolato il tema dei confini.

I cambiamenti epocali hanno avuto un influsso importante nei rapporti tra scienza e teologia. In particolare la scoperta della soggettività e l’acquisizione di una più chiara coscienza storica. L’incidenza della soggettività è stata notevole e ha dato luogo alla teoria della relatività, alla meccanica quantistica che hanno proposto modelli completamente nuovi per interpretare il mondo, mostrando come l’universo non si evolve per rigide leggi. Inoltre il risultato dell’esperimento non è totalmente determinato ma esiste una varietà di possibili risultati ognuno dei quali può avere un certo grado di probabilità, senza che sia possibile individuarne una causa per una reale occorrenza in una determinata occasione. In altre parole, l’universo non è una macchina gigantesca perfetta dove tutto è predeterminato, ma un insieme di interazioni dinamiche tra energie di cui la materia non è che un aspetto.

La teologia, dopo il concilio Vaticano II si è confrontata con questi cambiamenti e pur nella difficoltà, ha cercato di armonizzarsi con le scienze e le loro acquisizioni. I teologi hanno ricercato i modi più idonei di comunicare la dottrina cristiana, ricordando che prioritariamente si comunica con le esperienze e poi con le dottrine.
Nei vari incontri che hanno segnato il cammino della SIRT, si è cercato di tener presente queste sintonie dando ampio spazio alle discipline che trattano del vissuto, delle emozioni, dell’intuizione. E’ interessante notare come gli scambi avvenuti nel mondo anglosassone su queste tematiche hanno consentito di far evolvere in modo positivo i rapporti tra scienza teologia e fede. Indicatore di questa evoluzione è il consistente numero di pubblicazioni che portano lo sguardo degli scienziati nel mondo della teologia, inserendo la parola Dio o riferendo dialoghi e confronti tra scienziati e teologi.

La diffusione che questi testi hanno avuto fa pensare ad un nuovo rapporto tra scienza e teologia e ad una nuova funzione della teologia. Bisogna tuttavia guardarsi (ed è un rischio) dal trattare scienza e fede come realtà omogenee. Esse possono entrare in sintonia ma devono conservare allorchè flessibili, i loro confini. Se alle scienze viene chiesto, nei casi limite di non poter esaurire il mistero dell’uomo, alla teologia viene chiesta una riformulazione, non ancora avvenuta, dei suoi termini sia per potersi mettere in sintonia con paradigmi culturali contemporanei, sia per trovare nuovi sviluppi.

Si procede ad una riflessione sui termini: Rivelazione e Fede.
L’influsso dell’illuminismo ha portato a descrivere per lungo tempo la rivelazione come la manifestazione agli uomini da parte di Dio di conoscenze straordinarie. Di conseguenza si indicavano le verità da credere in funzione dell’autorità di Dio rivelante. Ciò ha suscitato la convinzione delle teologie cristiane (e anche delle chiese) di essere le detentrici di conoscenze esclusive spesso in contrasto con la scienza e la cultura profana. L’acquisizione della coscienza storica, unitamente alla svolta linguistica hanno però inciso sulla teologia e quindi sulle posizioni dei teologi. Oggi sembra accettata la convinzione che la persona umana possa accogliere i messaggi divini soltanto quando sono tradotti in eventi e forme umane che non possono nascere che da esperienze storiche. D’altra parte la storia umana costituisce una sorta di unità all’interno della quale i significati si intrecciano e si condizionano reciprocamente. In questo modo si è passati da una concezione di Dio come datore di conoscenze, ad una concezione di uomo e della storia come luoghi della rivelazione divina. La rivelazione come economia divina che si esprime in opere e parole conduce l’uomo alla scoperta del suo mistero e al senso della sua esistenza. Il fatto di considerare la rivelazione come eventi, e quindi come esperienze, da cui emerge un senso particolare si ricollega a quanto detto precedentemente..
“Amen…l’ho sperimentato. E’ vero! Lo vedo!”

I testi sacri sono prima di tutto narrazione di esperienze vissute ed esposizione della riflessione da queste suscitate. E questo è interessante perché il problema del credente nell’oggi, non è di adeguarsi al pensiero di Paolo o Matteo, quanto di far emergere dalle esperienze vissute e narrate da Matteo o da Paolo, quegli ideali, quei valori , quell’alimento vitale che permette di cogliere la sintonia con l’oggi. Quindi, secondo una rilettura contemporanea, la Bibbia non è parola di Dio per i suoi contenuti, ma perché raccolta delle tradizioni relative agli eventi salvifici suscitati da questa presenza attiva di Dio nella storia.

Sulla fede, nel primo incontro della SIRT a Roma, si era elaborata una idea di fede come processo che non è solo adesione, ma è qualche cosa che si congiunge all’amen perché è una accettazione senza riserve che ha un livello cognitivo razionale, ma che non si esaurisce in questo.

E’ vero che le conoscenze di fede, implicando i processi cognitivi non si possono ridurre a quello, ma le conoscenze date alla fede come tutte le esperienze esistenziali non possono essere confinate in una argomentazione razionale o dedotte da principi assoluti, ma debbono emergere da esperienze vitali. Per questo la fede non consiste primariamente in dottrine specifiche, bensi in un atteggiamento vitale di fiducia in Dio che conduce a conoscenze particolari. La fede non è una cultura che si confronta con altre culture, ma un atteggiamento che si svolge nella storia lungo il percorso di tutte le culture e che perciò assume forme e simbologie diverse nelle varie religioni come pure nelle diverse stagioni della vita umana.

Possiamo fare ora una differenziazione di confini. La fede si pone nell’ordine degli atteggiamenti vitali, la religione sul piano dell’espressione simbolica dell’esperienza di fede, la scienza nell’ambito dei modelli interpretativi dei fenomeni. Quindi ogni volta che presentiamo la formula “verità di fede” o “deposito della fede”, usiamo parole che non suscitano niente. Si trattai di riprendere l’esperienza che è un tema comune alle scienze teologiche e alle scienze di altro tipo e riportare la distinzione tra verità di fede e verità raggiunte attraverso i processi razionali ad una distinzione che viene aiutata quando riportiamo l’enunciato e l’esperienza alla diversa tradizione vitale in cui si verifica e all’ambito di esperienza che si compie. Ed è questo senso della vita che caratterizza l’esistenza presente.

Il percorso fatto in questi anni conferma che un nucleo fondamentale che consente un rapporto transdisciplinare è quello dell’esperienza.
La storia in Dio presuppone la certezza che le aspirazioni fondamentali dell’ethos umano:la vita, il bene, la giustizia, la compassione…già si danno in forma compiuta e inoltre un atteggiamento di accoglienza senza riserve che consente all’azione divina di esprimersi progressivamente anche in modo frammentario e discontinuo nella nostra vicenda esistenziale.

La certezza teologica è vitale e una conseguenza di questa impostazione è che le certezze teologiche sono sempre di natura vitale e non tanto dottrinale, infatti ad ogni tipo di esperienza corrisponde necessariamente una interpretazione della vita visto che la nostra mente non può funzionare se non conferendo significati, interpretando l’esperienza che vive. In questo senso la dottrina è connessa alla fede. Non tanto nei contenuti particolari quanto nell’orientamento prospettico dell’esistenza. Questa impostazione tiene conto del fatto che mentre l’orientamento globale del pensiero ha una sua costanza e coerenza, i contenuti intellettuali sono sempre provvisori e precari legati all’evoluzione della vita e quindi a contesti socio-culturali.

Da questo punto di vista la teologia condivide il cammino di tutte le scienze che procedono per errori, confusioni, nuove acquisizioni. La certezza vitale si traduce invece nella convinzione interiore, interna ad ogni esperienza di fede, che la vita si offre ed ha un senso. Essa non precede l’esperienza, ma ne consegue. L’esperienza di fede è compiuta sempre per opera di testimoni, di persone che vivendo un certo stile, capaci di amore inducono ad atteggiamenti che consentono di cogliere il significato profondo della stessa vita

Un argomento delicato che riguarda sempre i rapporti tra teologia e scienze è quello delle formule con cui la teologia si esprime. Nel percorso compiuto è emerso come le formule teologiche siano analogiche nella misura in cui non parlano di Dio in sé, ma dei rapporti con la persona umana. In altri termini il fare teologia non conduce a dire cosa sia Dio in sé, ma ad esprimere cosa la persona umana sperimenta vivendo il rapporto con Dio.

Il teologo non conosce la realtà divina. Egli ha il compito di scoprire le dinamiche intrinseche all’esperienza di fede e a rendere ragione della speranza proclamata. Tuttavia la razionalità della teologia implica che i suoi presupposti possano essere messi in discussione costantemente. La teologia deve condividere con le scienze che i presupposti e gli assiomi devono restare rivedibili. La loro validità può essere mantenuta solo grazie alla loro azione esplicativa ed interpretativa.

Del resto la fede accetta di esporsi pregiudizialmente a procedimento critico senza preclusione alcuna e coerentemente e strutturalmente attenta a tutte le provocazioni.
In conclusione si può dire che l’amen contiene una serie di valori che vanno evidenziati L’approccio aperto a tutte le provocazioni e l’inclusione di tutti gli aspetti delle esperienze ecclesiali sono una attuazione fedele e prospettiva degli insegnamenti del concilio Vaticano II sul rapporto fede-scienza-mondo. Il ri-dire il simbolo ha assunto le formule nel loro valore di esperienze seguendo un orientamento di pensiero che configura un intreccio di rapporti tra la realtà nel suo complesso, privilegiando la persona umana e quel particolare cammino esperienziale che è la fede cristiana vissuta dall’interno della tradizione cattolica nel suo senso più ampio cui hanno preso parte le voci significative dell’ortodossia e della riforma.

Altro dato interessante è che si è venuta formando una comunità di ricerca che per certi aspetti può essere definita come un percorso di una comunità scientifica in senso proprio, dove ciascuno conserva le proprie appartenenze e le proprie identità ma in modo inclusivo rispetto alle altre. I confini sono stati soglie da attraversare e nello stesso tempo coerenza con i propri territori.

Questo processo ha assunto anche per certi aspetti la fisionomia di un percorso comunitario di fede. I simposi hanno creato una cultura verificata sull’esperienza, e testimoniano la possibilità di rendere vitali delle formule approfondendole e ponendole in prospettiva nuova, in orizzonte ampio. Si tratta di un modello di ricerca che si è rivelato fecondo, capace di ri-dire, cioè di svelare, adeguandosi ai nostri tempi quanto è possibile per il simbolo,
Al di là di questa soglia c’è quell’eccesso di significato simbolico dinnanzi al quale ci è solo consentito fermarci per lasciare lo spazio al Mistero

Al professor Pinkus succede il pastore valdese Ruggero Marchetti che inizia il suo intervento facendo presente come il dire protestantesimo, significa il dire la sola Scrittura- Le Chiese protestanti vedono nella Bibbia la sola fonte di rivelazione, di preghiera, della loro vita…….
Accanto alla Bibbia ci sono poi , è altri due testi di riferimento: il catechismo e la confessione di fede.

Catechismo e confessione di fede che servono per tenere insieme la dimensione individuale e quella comunitaria. La coscienza è il santuario in cui ciascuno vive il suo rapporto con Dio e nessuno può interferire. La Bibbia è letta e liberamente interpretata da ciascuno liberamente e ciò ha dato origine alla frantumazione del protestantesimo nelle tante delle chiese.

Ma almeno nelle chiese protestanti valdesi, si è cercato di tenere insieme il primato della coscienza e la dimensione ecclesiale con questi due testi. Quando si legge la Bibbia, si deve sapere che c’è una interpretazione della Bibbia che la Chiesa ha fatto e il fedele si deve confrontare con questa interpretazione. La confessione di fede e il catechismo servono a fare conoscere come la Chiesa legge la Bibbia e come la vive. Resta poi al credente tirare fuori le dovute conseguenze.
Le chiese valdesi riconoscono i grandi simboli dell’antichità in quanto vedono in essi due presentazioni fedeli della rivelazione di Dio e riconoscono il valore dei simboli apostolici e dei primi concili perché reggono al confronto con la scrittura. La chiesa riformata possiede poi una sua confessione di fede e ogni chiesa ha una propria confessione di fede

Nella chiesa riformata è normale ri-dire il simbolo di fede. Ogni sinodo, ogni incontro importante si conclude con una confessione di fede. Ed è questo il modo per esprimersi di fronte ai problemi dell’attualità. Questo significa ribadire che c’è una Signoria di Dio concreta sul mondo e sulla storia.
Molti simboli di fede delle chiese riformate nascono dall’idea di creare un confine tra la rivelazione e i vari allontanamenti o dal bisogno di esprimere la propria fede in quanto minoranza, in funzione apologetica, far capire che la fede delle chiese riformate è un tornare alle origini.

Le chiese riformate non hanno mai affermato che le loro erano le vere chiese cristiane anche nei momenti di massima conflittualità con i cattolici, ma hanno sempre sostenuto che la vera chiesa di Cristo è quella dei credenti e quindi anche “credo la Chiesa” è interpretata in questo senso. La Chiesa va creduta proprio perché non la si può cogliere con i sensi. Le chiese visibili sono espressioni, con i vari riti, con le varie spiritualità e anche con i vari simboli della fede dell’unica Chiesa universale. La Scrittura stessa rimanda a ciò: Paolo non era dello stesso pensiero di Giacomo, Giovanni, Matteo e Luca erano con posizioni diverse….e queste differenze sono state accolte nel canone e ne fanno la ricchezza.

Agostino affermava che senza assenso personale non è possibile la fede. Non basta conoscere i contenuti della fede espressi dal simbolo, bisogna riconoscerli, bisogna riconoscere che esprimono ciò che per il singolo è la verità su Dio. L’amen è questo riconoscimento da parte del singolo credente. Si è nella dialettica tra singolo e comunità.

C’è anche una dialettica all’interno dell’amen che è appropriazione e testimonianza personale della rivelazione biblica espressa nel simbolo e dall’altra c’è una profonda dimensione di preghiera. L’amen fa diventare il simbolo una preghiera.
L’amen è l’elemento “protestante” del simbolo. Il termine protestante nasce con la dieta di Spira, per indicare la protesta contro i dictat dell’imperatore che voleva obbligare le chiese e i principi all’antica fede, ma ha anche il senso di pro-testare, dare testimonianza davanti ad altri, della tua fede. L’amen si può rendere con “E’ così”.
Lutero chiude ogni articolo del credo con l’espressione: “E’ così!” . Questo è certamente vero!.

Poi c’è la dimensione performativa dell’amen. La grazia va chiesta in preghiera.
Fulvio Ferrari ha scritto un libriccino sul credo : “Libertà di credere” e riporta la strofa di un cantico (naturalmente è Lutero che commenta): “Amen significa : diventi vero, rafforza sempre la nostra fede affinchè non poniamo in dubbio quanto abbiamo detto in preghiera, sulla tua parola, nel tuo nome, in questo modo il nostro amen è autentico.”
Ecco che si ha da un lato l’amen che dice “E’così” e dall’altro l’amen che dice “Rafforza sempre la nostra fede”,

Ogni volta che diciamo Amen noi facciamo nostre le parole del Padre e del giovane epilettico: “Credo, ma tu soccorri….”. Testimonianza e preghiera insieme.
Barth, nella Dogmatica, nei Prolegomeni ha sottolineato la distanza incolmabile che c’è tra Dio e ogni essere umano, a un certo punto dice che nella fede e nella confessione di fede la parola di Dio diventa pensiero e parola umani.” E ciò si realizza, in particolare per il singolo credente, nel momento dell’assenso personale che è il momento dell’amen.
Bohneffer in sequela scrive: “ Noi preghiamo Dio nel quale crediamo per Gesù Cristo”. Non occorre spiegare, scongiurare Dio nella preghiera. Dio sa ogni cosa. E questa consapevolezza dona alla nostra preghiera una piena fiducia, una certezza gioiosa. Non si tratta della formula che si usa, della quantità delle parole, ma della fede che tocca il cuore di Dio.
L’amen, il “è certamente vero”, ma anche il “sia vero” che chiude il simbolo è da parte del singolo credente, come “toccare il cuore di Dio” e lo si può fare, perché Dio per primo ha toccato il nostro cuore.

Continua la panoramica il professor Francesco Miano che premette che il suo intervento vuole essere una riflessione, abbastanza libera , attorno alle “opportunità” che possono scaturire da alcuni vocaboli significativi emersi nella lettura del materiale preparatorio per affrontare il tema dell’ “amen”.

1) Il primo punto è denominato “certezza interiore e verità”, perché in qualche modo, sta a significare la prima grande sfida: la ricerca di una forma di verità non legata a criteri di validità. Ritiene che una grande opportunità in questo momento è proprio far cogliere questa modalità che è decisiva e importante dal punto di vista della fede, di una fede vissuta che chiede il coinvolgimento di tutto sé stessi, E’ necessario lavorare attorno al concetto di verità, anche come dimensione della soggettività, come scoperta alla fine di un cammino che porta a dire “si”. In un certo senso, il sì dell’amen”. Questa riflessione può essere il primo confine che una riflessione sull’amen può proporre a livello filosofico esistenziale.

2) Il secondo passaggio è quello che si puo’ denominare dell’ ”affidamento-fiducia” perché la dimensione dell’amen richiama, proprio per questo dato della certezza interiore, ad un elemento che fa superare la possibile caduta soggettivistica di questo dato della certezza. Perché nell’amen c’è una dimensione relazionale intrinseca così come in ogni esperienza autentica di ricerca della verità. Nell’amen c’è la dimensione della relazione con il Signore che è prima di tutto fondata sul fidarsi e sull’affidarsi, sulla solidità delle promesse di Dio. E’ solo sulla base si questa fiducia, fondata sulla relazione che possiamo dire amen e offrire a Dio anche la vita. Il nostro tempo vive la crisi della fiducia. Recuperare come credenti questo dato del fidarsi e dell’affidarsi dice di una dimensione decisiva, di un contributo legato alla dimensione spirituale, ma anche di un contributo legato alla dimensione culturale che assume oggi un carattere di urgenza. In questo ambito relazionale la mancanza di fiducia è fatale per il destino delle comunità e per la società in genere.

3) E di qui il terzo termine che è “responsabilità”. Una autentica certezza interiore, fondata sulla capacità di fidarsi e di affidarsi, il vivere la verità in chiave non esclusivamente intellettualistica, porta con sé, come atteggiamento naturale, la capacità di dare risposta. Affidarsi non significa sottostare, essere passivi, ma sentirsi coinvolti in una dinamica relazionale in cui la responsabilità è la risposta che si sente di dare ad una provocazione che è stata rivolta, ad un senso di fiducia che ho avvertito. L’amen è in un certo senso questo senso di responsabilità. E’ una risposta, la risposta personale. Nella dimensione della responsabilità c’è anche un aspetto vocazionale, la dimensione specifica della capacità che è di ciascuno di saper dare la propria risposta. Amen, in un certo senso è un modo di associarsi e di intendere la responsabilità come risposta ad un appello. Risposta che è poi esercizio della libertà. E qui si apre tutto quell’orizzonte di pensiero che ha connessione con il discernere, con lo scegliere a partire da un ascolto e da una dimensione di partecipazione.
Si inserisce qui, quella capacità di trasformazione della realtà che l’amen porta con sé. Perché vero esercizio della responsabilità non è un esercizio individualistico, ma è un esercizio aperto e non è contraddittorio in questa prospettiva legare alla parola responsabilità la parola amore. La vera responsabilità è l’amore di un “io” verso un “tu”. Ogni gesto di responsabilità non è mai un gesto chiuso, ma è un gesto che si apre al mondo. In questo senso il sì dell’amen dice sempre qualcosa di nuovo; ogni assunzione di responsabilità piena e liberante è una parola di novità.

4) Di qui il quarto passaggio, la parola fedeltà. Oggi la fedeltà sembra una virtù minore, sembra segnata da un forte deficit nell’orizzonte culturale contemporaneo. La riscoperta della fedeltà ( e qui il legame con l’amen è evidente) richiama alla struttura costitutiva della vita quotidiana del credente. La fedeltà rende verace la testimonianza. Ma fedeltà non significa staticità. E’ una forma di profezia che come credenti si è oggi chiamati a vivere: fedeltà come coerenza di vita, ma anche fedeltà alle persone. Ricordando che la fedeltà è un rischio e non è un cammino piano e tranquillo…

5) Le ultime due parole sono “speranza” e “comunità”. Una autentica responsabilità non si oppone alla speranza, ma diviene possibilità che questa si realizzi. Le due parole vanno insieme. La fedeltà si regge sull’idea che abbiamo espresso un sì che dà concretezza e indirizza ciò in cui crediamo E questo si, dice la nostra speranza, una speranza che è certezza e che per il credente è trama che regge la storia. L’amen è per il credente fondamentalmente una grande speranza che lo apre alla storia in un modo nuovo e che dà senso al suo futuro.

6) E infine “comunita”. Ciascuna delle parole precedenti se in qualche modo nasce a partire dall’amen, è una parola plurale. Ogni scoperta, se è vera scoperta è fatta per essere condivisa e la speranza è tale solo se raccontata. E questo ci apre ad una dinamica ecclesiale, ad una responsabilità che si connota sempre come corresponsabilità.

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