Seminario metodologico. Roma, 28-30 luglio 2015
di Clara Aiosa
Nella seconda giornata del seminario (29 luglio), Cettina Militello (Pontificia Facoltà Teologica «Marianum») e Fabrizio Bosin (Pontificia Facoltà Teologica «Marianum»), muovendo da prospettive diverse, hanno hanno dialogato su istanze di riforma ieri e oggi: un percorso tra personaggi, eventi, testi.
La relazione della prof.ssa Cettina Militello, ha preso le mosse dal dato storico inconfutabile secondo cui la storia della Chiesa ci mette dinanzi non solo all’istanza di una reformatio et renovatio ma anche a riforme compiute; in particolare, tutto il secondo millennio è percorso dall’istanza della reformatio et renovatio ecclesiae, in capite et in membris, di cui si fanno certamente carico i movimenti pauperistici medievali, e il movimento francescano, con gli aspetti interiori e spirituali che lo connotano. Quest’istanza di riforma, da una parte ha veicolato l’urgenza di una mutazione morale e disciplinare, dall’altra ha messo in luce le difficoltà connesse all’esercizio del potere primaziale che, acquisite forme temporali, di necessità ne compartisce problemi e articolazioni amministrative. A motivo di ciò, il più delle volte, la riforma della Chiesa è surrogata o identificata con la riforma della sua struttura amministrativa centrale, la curia romana appunto
La relazione ampia e articolata, ha passato in rassegna le principali istanze di riforma della storia della chiesa: i concili di riforma, dalla riforma della chiesa alla riforma della curia, il concilio di Trento, l’azione di Carlo Borromeo, la costituzione apostolica Alias nonnullas, la costituzione Immensa aeterni dei, il progetto di riforma del Vaticano II.
Partendo dall’assioma Ecclesia semper reformanda, un assioma che attraversa la storia della comunità cristiana, intrecciandosi con la storia del papato e con lo sviluppo del potere primaziale del vescovo di Roma, è stata proposta una necessaria e quanto mai opportuna explicatio terminorum circa i termini reformatio e renovatio. Re-formatio implica un rinnovare la forma costitutiva, anzi la “bella forma” originaria. Al termine re-formatio, ha affermato la prof.ssa Militello, soggiace l’utopia di una bellezza-autenticità arcaica dalla quale ci si sarebbe distaccati e alla quale è bene ricondursi. Non si tratta della stereotipata lamentazione su un presente, depauperato rispetto al passato. La re-formatio non è una banale e statica nostalgia, quanto la consapevolezza d’averne trascurato l’autentica e propria virtualità. In questa chiave va letta la prossimità semantica tra reformatio e renovatio. Il “ri-novamento” infatti è il polo dinamico della “ri-forma”.
La reformatio, però, assai spesso più che all’istituzione si circoscrive ai modi di condursi del popolo di Dio tutto, pastori e fedeli. Il che, ovviamente, ha un suo valore, ma ha finito con il far perdere di vista la fedeltà dinamica dell’istituzione ecclesiale, la sua corrispondenza o meno alle istanze germinative proprie della Chiesa nascente. Come dire che si è operato uno spostamento dal piano teologico al piano etico, dalla architettura ecclesiologica ai comportamenti più o meno virtuosi, rischiando così nel tempo di depistare la/le riforme o di renderle inefficaci. Con ciò ovviamente si è persa anche la dimensione misterico-sacramentale e la Chiesa stessa è stata percepita come istituzione tra le istituzioni senza quella riserva teologica e teologale che avrebbe potuto davvero supportarne la “ri-forma”.
Nella lunga e dettagliata analisi sono stati passati in rassegna i concili che, nel corso della prima metà del secondo millennio, hanno incluso tra i loro temi la riforma in fide et in moribus, in capite et in membris. In particolare ci si è soffermati sulle 70 “costituzioni” presentate da Innocenzo III e approvate al Lateranense IV (1215); il concilio Lionese II (1274); la prima sessione del Concilio di Vienne (1311-1312); la prima sessione (16 novembre 1414); la sessione XL (30 ottobre 1417); la sessione XLIII (marzo 1417) del Concilio di Costanza); la sessione XI (27 aprile 1433); la sessione XII (13 luglio 1433); la sessione XV (26 novembre 1433); la sessione XXIII (16 marzo 1436) del concilio di Basilea (1431-14379; i concili di Ferrara e di Firenze (1438-1442); il Lateranense V (1512-1517).
Il passaggio successivo: dalla riforma della Chiesa alla riforma della curia, ha messo in evidenza il cambiamento di prospettiva che si è verificato: la riforma pare non toccare più la globalità del corpo ecclesiale, istituzioni comprese, piuttosto l’assetto operativo della curia romana, quale organo deputato a collaborare il papa nell’esercizio del suo compito pastorale. Per la comprensione di questo mutamento è stata scelta la costituzione Pastor Bonus di Giovanni Paolo II, del 28 giugno 1988, in particolare i paragrafi 4 e 5, con il necessario riferimento alla costituzione Regimini Ecclesiae Universae di Paolo VI del 15 agosto 1967. Il quadro è stato completato con il riferimento al Sinodo dei Vescovi, istituito da Paolo VI, il 15 settembre 1965, con il motu proprio Apostolica Sollicitudo, accogliendo una precisa richiesta formulata trasversalmente da oltre 500 padri conciliari.
La relazione ha fatto emergere chiaramente il nodo ecclesiologico che soggiace al tema della riforma. La riforma o è della Chiesa o non è riforma, si tratta, infatti, di ricondurre la Chiesa stessa al suo arché, al suo cominciamento, non tanto nelle forme sociologiche, ovviamente mutate, quanto nei suoi principi teologici e teologali originari.
Il Concilio di Trento lavorò su un doppio binario, quello dogmatico e quello della riforma della Chiesa. Dichiarata innanzitutto la ricezione millenaria del Simbolo Niceno-costantinopolitano, la linea dogmatica, sessione dopo sessione, produsse una definizione relativa a ciascuno dei sette “sacramenti della Chiesa”. E, collateralmente, produsse un decreto di riforma, senza corrispondenza con la definizione dogmatica stabilita in quella stessa sessione. Unico caso di corrispondenza quello della sessione relativa al sacramento del matrimonio; in essa, pur rimanendo autonomo il decreto di riforma, alla definizione dogmatica si aggiunse direttamente un decreto di riforma relativo al medesimo sacramento.
Nei decreti di riforma del concilio di Trento l’attenzione privilegiata è ai vescovi e, più in generale, a coloro che sono direttamente impegnati nella cura animarum. Infatti il concilio stesso è guidato dall’assioma: salus animarum suprema lex esto. La fatica del Concilio sul fronte della riforma della Chiesa si esprime infine nell’ultimo decreto, de reformatione generali (3-4 dicembre 1563, sess. XXV) che è una sorta di ripresa ordinativa dei diversi decreti di riforma. Senza dimenticare, ancora, che nella stessa ultima sessione il Concilio demanda ad alcuni padri scelti dal papa la riforma del catechismo, del messale, del breviario. Non sfugga, poi, l’invito allo stesso pontefice romano di disporre mezzi adeguati per l’accettazione e l’osservanza dei decreti conciliari.
Analizzando l’azione di Carlo Borromeo, la relatrice ha messo in rilievo, in primo luogo, il fatto che Borromeo, membro della commissione di cardinali, istituita da Pio IV per la riforma, è stato protagonista indiscutibile delle riforme prescritte dal Concilio Tridentino, dedicandosi totalmente al concilio e all’attuazione delle sue riforme.
Sicuramente si deve a Carlo Borromeo la costituzione apostolica Alias Nonnullas del 2 agosto 1564 con la quale Pio IV istituì la Congregatio pro executione et interpretatione Concilii Tridentini, sia per la forza riformatoria che la connota, sia per la metodologia collegiale con essa reintrodotta, sia per la globalità operativa da essa promossa.
Dopo la Costituzione Alias Nonnullas di Pio IV, l’intervento papale post-tridentino più incisivo, destinato a influire più a lungo sino alla nostra epoca, è la costituzione Immensa aeterni Dei di Sisto V, scritta personalmente dal papa, che ha segnato la curia sino alla riforma operata da Pio X. Di questa costituzione, l’attenzione si è soffermata sulla Congregazione per l’attuazione e interpretazione dei decreti del Concilio di Trento, istituita da Pio IV e promossa da Pio V, per la sua particolare destinazione all’attuazione del Concilio. La riforma della Chiesa diventa un aspetto della riforma della curia e tecnicamente, quelli che avrebbero potuto essere uffici attuativi della riforma, affidata ad un’unica congregazione, acquisiscono autonomia propria riproponendo pertanto la questione mai risolta di una pluralità di organismi della curia di fatto con funzione direttiva.
Il passaggio conclusivo della relazione della prof.ssa Militello, è stato il progetto di riforma del Vaticano II, non senza aver evidenziato che lo stesso Vaticano I, nel decreto d’apertura, pone tra le sue motivazioni l’ad reformationem cleri populusque cristiani.
Certamente il concilio Vaticano II può essere definito “concilio di riforma”. La stessa “pastoralità” del Vaticano II è fondativa della soggiacente istanza di riforma. Così lo intese Giovanni XXIII convocandolo per “l’aggiornamento” della Chiesa, ovvero per operare quel ressourcement (ritorno alle sorgenti/risorsa) che aveva animato lo scenario teologico dei decenni tra le due guerre. Aggiornamento e ritorno alle fonti miravano, appunto, alla riforma della Chiesa, non alla condanna di errori o di altro. Un’eco di queste intenzioni/attenzioni si trova nel discorso di Giovanni XXIII, durante la solenne apertura del concilio ecumenico vaticano II, l’11 ottobre 1962, Gaudet Mater Ecclesia, e nella costituzione pastorale sulla chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes.
L’attenzione della relatrice si è focalizzata sui luoghi conciliari nei quali esplicitamente si trovano i termini reformatio e renovatio. Il termine reformatio appartiene soprattutto a Sacrosanctum concilium, in cui, trattandosi della riforma liturgica, più che il termine esplicito troviamo l’istanza. In particolare sono stati analizzati i numeri 6-46 relativi ai principi generali della riforma liturgica, i numeri 50; 52-54; 62; 87; 111; 116; 123; 125; 128; 129; 131; 136; 139-140; 142-143; 149-150; 192; 204; 241-244 relativi alla riforma del rito della messa, del rito dei sacramenti, dei riti dei sacramentali, del rito della professione religiosa, dei riti funebri, dell’ufficio divino, della musica sacra, del calendario.
In UR 4 e 6 si trova il binomio renovatio – reformatio, in cui si sottolinea che non basta il rinnovamento ma occorre un comune impegno di riforma. Il primo testo offre chiaramente una interpretazione dei termini renovatio et reformatio; il secondo indica esplicitamente la dinamica della renovatio ecclesiae, che è tale solo nella fedeltà alla originaria vocazione: la Chiesa stessa, in virtù del suo statuto peregrinante, ha sempre bisogno d’incessante riforma. Il testo prosegue indicando precisamente in che senso si debba parlare di riforma. Non si tratta di mettere in questione il depositum fidei, ma di operare quel “restauro”, necessario a quanto si è sopraggiunto al deposito relativamente ai costumi, alla disciplina, al modo di proporre la dottrina. Il rinnovamento il concilio lo legge già in atto nel movimento biblico, liturgico, kerygmatico, nell’apostolato dei laici, nella acquisita spiritualità del matrimonio e nelle forme nuove di vita religiosa come pure nella dottrina e nell’impegno sociale della Chiesa, cose tutte che disegnano già le direttrici di quel rinnovamento e di quella riforma della Chiesa che il Concilio persegue. Sono questi, in sostanza i loci della riforma.
Anche nella costituzione dogmatica sulla chiesa Lumen gentium, in più passaggi si trovano i termini renovare e renovatio. In particolare LG 4; LG 7;-9; LG 12; LG 15; LG 48: qui in verità si trova il termine restitutio che ha la valenza di rinnovamento, anche se il contesto è escatologico.
Dai questi ultimi testi conciliari appare chiara la soggettualità dello Spirito Santo in ordine al rinnovamento e alla riforma. Il rinnovamento della Chiesa non è un optional. È un suo tratto necessario perché la sua testimonianza sia efficace. Nella ricognizione dei testi conciliari sono stati recuperati altri passaggi importanti: GS 21, relativamente all’ateismo; GS 43; sul rapporto tra il rinnovamento della Chiesa e la condotta dei cristiani; OT 1, sull’impegno per la formazione sacerdotale: il rinnovamento dei seminari; OT 22, sull’aggiornamento del giovane clero; OT 14 e OT 16 per quanto riguarda il rinnovamento degli studi teologici; PO 1, sul ruolo dei presbiteri nel rinnovamento della Chiesa; AG 37, sulla missionarietà quale grazia del rinnovamento delle comunità cristiana.
Al di là delle ricorrenze lessicali, indubbiamente, il Vaticano II è un concilio di riforma. Tale progetto riguarda l’assetto della Chiesa, considerato teologicamente e operativamente nei quattro ambiti fondamentali: liturgia, Scrittura, la Chiesa stessa, il rapporto Chiesa – Mondo. In questo senso per la relatrice si tratta di riacquisire la virtualità originante della parola di Dio e di tradurla in forme adeguate sul piano del mistero celebrato, del mistero-sacramento che la Chiesa è, del consequenziale rapporto che per ciò stesso deve avere con il mondo. Tutto ciò rinvia al sintagma operativo ed efficiente di un “concilio permanente”, ovvero ad uno status di Chiesa che in tutte le sue componenti, in tutte le sue strutture verifichi e adegui la sua risposta al Vaticano II.
La proposta conclusiva è stata quella di pensare a una struttura di servizio, la congregazione del Concilio che riproponendo al suo interno l’organigramma dei sedici documenti conciliari verifichi la ricezione del Concilio stesso e finalmente si ponga a servizio della sua attuazione. Si tratta di un processo che deve essere promosso in tutte e singole le Chiese, in tutti e singoli gli ambiti e le soggettualità ecclesiali. La riforma è della Chiesa. Tocca tutti e tutti ne siamo il soggetto e l’oggetto.