Istituto Costanza Scelfo
La vicenda di Costanza Scelfo è sotto il segno della normalità, della quotidianità, dell’ovvio.
Ma poiché nell’universo umano, così segnato dalla inquietante sete di Dio, normalità, quotidianità, ovvietà sono termini approssimativi e impropri, la stessa vicenda può essere letta sotto il segno dello straordinario e dell’eroico. Tutte e due queste valenze urgono al cuore di quanti l’abbiamo conosciuta, stimata, amata, avuta quale compagna di una avventura che ci sorpassa tutti.
In questo paesaggio così mutante e suggestivo, nelle attività normali di una ragazza del tempo passarono le sue giornate. Spensieratezza puntigliosa prima, poi la guerra, remota e pur presente, la morte del padre, la convivenza in una famiglia numerosa, guidata da una madre che a dispetto della cultura e del luogo non esitò a porsi a capo dell’azienda familiare alla morte del padre.
Il matrimonio
Incombenze normali, habitat normale. Un solo cruccio che non la lascerà mai: non proseguire gli studi. L’accesso all’università era ancora considerato non adeguato ad una ragazza di buona famiglia. Bastava il liceo, il pianoforte, e poi il matrimonio, dei figli…
Costanza rispettò in apparenza il cliché. Sposa poco più che ventenne, ricordava talora il tempo del suo fidanzamento come tempo di crisi e di prove generali non sempre riuscite. Preparandosi al matrimonio secondo gli schemi dell’efficienza domestica, pensava di essere inadatta quando una delle cose ritenute essenziali, essere una brava cuoca ad esempio, non rispondeva al suo impegno. Ricordava come propinava al fidanzato seri discorsi sulla sua inettitudine e dunque sul fatto che non era adatta o pronta per il matrimonio…
Ma queste cose non turbarono la scelta di Franco Barberi né quella sua stessa. La sua capacità di organizzare del ménage si rivelò d’altra parte attenta e originale. Giovane sposa si ritrovò a Palermo, città nuova per lei. Di questi anni Costanza ricordava i furori culinari. Ma taceva la pena enorme di non aver visto la sua casa allietata di bimbi. Mi disse una volta, di sfuggita, con molto pudore dei suoi sentimenti, che a margine del suo corredo era già pronto quanto serviva per un corredino. All’idea di non aver figli non si era affacciata neppure lontanamente.
Difficilmente però Costanza riandava al passato. Sappiamo da Franco che si trovò a vivere un ménage soffocante, Si badi bene: per troppo amore… Non aveva spazi propri, L’affetto del marito la seguiva nelle piccole come nelle grandi cose. Anche un’operazione banale come il fare la spesa era fatta insieme. La puntigliosità di cui ho parlato ci fa supporre che Costanza interamente rivolta alla casa, ed ai doveri sociali inerenti la professione del marito. In questo periodo forse si dedica abbastanza al pianoforte, passione della quale tace quando lo lascerà per darsi alla teologia… Dunque una normalità borghese che rispetta in pieno i ruoli, che vive la vicenda tipica di quegli anni sessanta, sotto il segno del benessere crescente…
Oltre la famiglia
L’arco delle amicizie in città nel frattempo si allarga ad una Comunità di Vita Cristiana. Lì Costanza incontra donne del suo stesso ambiente. Ma la rispondenza in lei del fervore del concilio è altra.
Dovessi dire chi era Costanza dovrei dire che era una piccola donna severissima con se stessa e dolcissima con gli altri, mai pronta a creare alibi per sé, ma sempre pronta ad ascoltare, e con molta discrezione, senza invadenza, a consigliare. In questo contesto di rigore il ripensamento alla sua scelta cristiana la mette alle strette. Avverte come questa ultima sia fatto definitivo, globale. In qualche modo si sente a disagio nella mondanità in cui deve pur vivere. Il suo desiderio di silenzio, di luce interiore, di approfondimento diventa sempre più radicale.
Tutto ciò se ha come contestualità ecclesiale il concilio e il nuovo fervore dei movimenti laicali, ha per lei personalmente una ragione grave. Senza che nessuno o quasi lo sappia, scopre di esser ammalata di cancro. A quarant’anni subisce la mutilazione del seno e lo choc più terribile che viene dal sapersi condannati senza appello. La sua sofferenza, la lacerazione profonda di lei che ama tanto la vita, rimane a tutti nascosta. Torna ai suoi impegni mondani e al suo impegno in comunità. Ma qualcosa di ciò che la lacera affiora nel colloquio con il marito, sicché, proprio per far fronte a quanto le avviene, torna allo studio. Innamorata della vita e del futuro e d’altra parte ormai consapevole della relatività del suo futuro si tuffa nello studio della teologia. Ormai sono le risposte ultime, è l’intelligenza della fede ciò che la seduce.
Sofferenza e vitalità
L’ho incontrata così dietro un banco di scuola. Guardavo questa graziosa signora attenta che non la finiva più di prendere appunti e di fare domande. Confesso che sulle prime pensai che fosse una delle tante che per moda approdavano alla teologia. Ad un certo punto si assentò, qualcuno mi disse che era ammalata. Le scrissi un biglietto convenzionale. Da questo gesto la nostra amicizia è durata oltre cinque anni.
Avevo compiuto appena i trent’anni e per me cominciava l’avventura dell’insegnamento della teologia. Per Costanza che aveva tanto desiderato studiare rappresentavo una sorta di utopia vivente. Capì che le difficoltà non mancavano e che ci voleva molta testardaggine per insistere in una attività così inconsueta e in un mondo maschile e clericale.
Divenne la mia roccaforte. Alla mia fragilità opponeva la sua forza, a ripensarci lei malata dava energia a me che ero sana. Ma ciò che è straordinario, è il modo in cui ci riusciva. Non si trattava di discorsi, ma di «essere» in un certo modo. Divenne amica di diversi di noi. Come ho già scritto condivise nella sofferenza, nella preghiera, ma più ancora nell’entusiasmo, nell’ottimismo contro ogni difficoltà anche insormontabile, le difficili fasi dell’erezione della Facoltà. La ricordo ancora elegante come sempre recare i fiori all’altare il giorno dell’inaugurazione della Facoltà. Quello stesso abito, sobrio e prezioso, secondo quello stile che la caratterizzava, la pietà dei congiunti, senza saperlo, le ha messo addosso sul letto di morte…
Comunque si legga la sua vicenda è il nesso profondo di normalità, di decoro, di silenzio, di stile e la complessità dei problemi che ha dovuto affrontare, problemi pur sempre umani e comuni a tanti altri, a dirci lo straordinario di Costanza.
I suoi cari, gli unici che le sono stati vicini negli ultimi momenti
Si è spenta senza agonia
Hanno raccolto i suoi ultimi discorsi. Parlava al plurale, diceva: «saremo tanto contenti»
La passione per la teologia
Sperava di giungere alla licenza in teologia, ma avvertiva le difficoltà. Nessuno avrebbe sospettato vedendola a scuola che poche ore prima si era sottoposta a terapie debilitanti. Il suo aspetto accurato sino alla fine non lasciava neppure il sospetto di una malattia così grave e della fine imminente. In una delle tante crisi la ricordo a letto a parlare, credo della Riforma, con una amica. Solo le mani aggrappate alla spalliera rivelavano i dolori tremendi. Il suo volto era illuminato. Tutta la sua passione era per il discorso che stavamo facendo. Per venire a dare l’addio alla Facoltà, che tanto aveva amata, in occasione della visita del papa si imbottì di sedativi. Ci chiediamo ancora come riuscì a tenere a bada il dolore per tante ore… Ormai il cancro l’aveva assalita in modo irreversibile. Gli ultimi tentativi di risolvere chirurgicamente il problema erano falliti. Da quel 21 novembre 1981 non si alzò più dal letto. Ma i pretesti che adduceva per i dolori e per il fatto di non potersi alzare mascheravano quasi a tutti, anche ai colleghi ed amici, che era alla fine. Celebrammo l’ultima volta insieme l’eucaristia il giorno di capo d’anno e pensavamo che si sarebbe alzata di nuovo. Il 4 gennaio mi telefonò pregandomi di dire a tutti che per due settimane non andassimo a trovarla. Aveva bisogno di terapia intensiva e non poteva riceverci. Mi telefonò quasi otto giorni dopo e la pregai che mi lasciasse andare a trovarla. Era titubante. Poi mi disse di andare subito. La trovai e capii che non si sarebbe più rialzata. La lunga lotta si era consumata in un niente. Mi disse che era stanca. Ma fu un momento. Tornò subito a parlare di nuove terapie. Ma non mi nascose che le metastasi erano numerose e diffuse. Andai via sapendo che non l’avrei più vista viva. Seppi dopo che aveva raccolto tutte le sue forze per quel breve incontro. Le due settimane che ci aveva chiesto erano per non offrire lo spettacolo della sua sofferenza e del suo disfacimento. Il suo autocontrollo ormai non bastava, il dolore aveva la meglio. Ci ritrovammo tutti attorno a lei proprio come ci aveva chiesto. Era il 18 gennaio, primo giorno dell’ottavario per l’unità.
Lei che rifiutava l‘idea dell’eternità come di quiete e che rifuggiva il buio, tornava alla città delle sue nozze e della sua giovinezza sotto una luce tersa e incredibile. L’Etna ammantata di neve faceva da sfondo a questo corteo.
Cettina Militello, Costanza Scelfo: lo straordinario nel quotidiano in «Testimoni nel mondo» 66 (1985), pp.49-53.